real estate

by Valentina Piuma. Blogger, Economia, Centro Studi.

Forse l’idea che tutto tornerà come prima serve a tutti noi per sentirci meno vulnerabili.

La vulnerabilità, il senso di precarietà e di pericolo a cui abbiamo fatto il “callo” nei due lunghi mesi del lockdown non ci abbandonerà, nella generalità dei casi, così facilmente anche se molti di noi sono ritornati in ufficio, al ristorante o a vedere le mostre.

Il teatro in cui tutte queste attività prendono forma e vita sono essenzialmente le città che storicamente attraggono popolazione, ed in particolare Milano, che ha dovuto affrontare oltre all’emergenza sanitaria anche un improvviso “silenzio” dovuti agli uffici vuoti e ai negozi chiusi. Ovviamente non ne viene messa in discussione la predominanza al centro degli interessi degli investitori, ma alcuni dati recentemente resi noti da portali dedicati al settore immobiliare mettono in evidenza come sia cresciuto in termini assoluti l’interesse per location una volta definite secondarie, che tuttavia distano solo poche decine di chilometri dalle grandi città e soprattutto da Milano stessa.

Come analizzato da Edoardo Campanella e Francesco Profumo nel loro articolo “Cambiano le gerarchie urbane ma le città non moriranno” sul Corriere della Sera di sabato scorso, sembra sia evidente un ribaltamento delle gerarchie urbane tra centro e periferie che hanno contraddistinto questa parte di mondo, fin dalla Prima rivoluzione industriale.

Le gerarchie urbane non sono quindi qualcosa di statico, anche se il centro di attrazione difficilmente perde del tutto la propria forza.

Quello che sembra accadere è che la forza e l’attrattività di alcuni centri, che nel nostro Paese ha il proprio campione nazionale nella città di Milano espanda il proprio benefico effluvio su altri centri.

Resta immutato, infatti, il ruolo di Milano come destinazione degli investimenti degli operatori nazionali ed internazionali e come sede delle più importanti corporate. Tuttavia, l’afflusso di popolazione nelle aree periferiche porterebbe inevitabilmente al crescere di una domanda di beni e servizi che prima era concentrata esclusivamente, o quasi, nel capoluogo.

Località non così lontane, ma neppure così vicine, che sono in grado di garantire con un uguale potere d’acquisto una tipologia di vita dalle dimensioni più comode da “vivere” per tutta la settimana, o anche solo per periodi più brevi che sanno far convivere lo smart working con i ritmi più rallentati del “buen retiro”.

Tutto bello, quindi? Questo è ancora da capire.

Sicuramente quello che è positivo è una legittimazione del non vivere “in grandi città”, senza necessariamente sentirsi pària.

Chiunque di noi abbia lasciato senza rimpianti cittadine e paesi che sembrano fuori dal tempo e dallo spazio per i canoni delle metropoli, sa che con il passare degli anni assume un fascino discreto quello di poter passare del tempo senza la frenesia della città con i ritmi più lenti. Fascino che mantiene il suo effetto positivo se si è in possesso di infrastrutture digitali in grado di annullare le distanze fisiche.

Bisogna prendere coscienza che qualcosa è cambiato. Inaspettatamente, tutti noi ci siamo ritrovati a ripensare i nostri ritmi e le nostre modalità di lavoro e di vita, e molto probabilmente il ritorno al via non è ipotizzabile. È quindi necessario trovare un’armonia tra le diverse opzioni in logica win-win che consenta alle zone “depresse” di risorgere senza snaturare il proprio essere ma valorizzando i propri elementi di attrattività e alle grandi città di continuare a rappresentare un luogo di attrazione dei talenti e degli investitori potendo garantire ai propri abitanti una migliore qualità della vita, senza che lo spazio vitale minimo dell’uno invada inevitabilmente quello del proprio vicino.