real estate

by Valentina Piuma. Blogger, Economia, Centro Studi.

Quello che emerge dall’indagine annuale svolta da PWC e Urban Land Institute per l’edizione 2019 del report Emerging trends in Real Estate Europe presentata nei gironi scorsi a Milano è come l’incertezza politica sia uno dei fattori che penalizzano l’attività degli investitori.

In questo scenario, Milano è la città che attrae maggiormente gli operatori istituzionali, anche se perde tre posizioni in classifica, probabilmente per effetto delle elezioni nazionali del 2018, che hanno portato alla formazione di un governo di coalizione populista ed euroscettico.

E, dopo la stagione dell’oro del 2017, eccezionale sia per l’interesse dei turisti che per gli investimenti, pur avendo vissuto in quest’anno un rallentamento fisiologico nella quota dei flussi di investimento, ancora si registra un importante traguardo in termini di volume.

In questo panorama, dove il cielo tende al sereno, sembra quasi esserci una sostanziale separazione tra il mondo del real estate e quello delle imprese di costruzione che ancora oggi pagano un prezzo pesantissimo e una sostanziale indifferenza del mondo politico che non sembra riconoscere il valore aggiunto che il comparto delle costruzioni nel suo complesso ha fornito al PIL nazionale.

Un settore malato la cui crisi troppo lunga non ha risparmiato nessuna impresa. Se nei primi anni la crisi ha falcidiato una grande parte delle imprese medie di matrice famigliare, che hanno rappresentato il fulcro degli Hidden champions, l’onda lunga della recessione sta colpendo ora anche cinque delle principali e storiche aziende di costruzione del nostro paese.

Un settore incentrato su imprese famigliari di grande tradizione che hanno fatto di questa condizione una caratteristica identitaria distintiva che tuttavia ha rappresentato, talvolta, un freno alla crescita e allo sviluppo.

Nello scenario peggiore, in caso di default delle cinque aziende al centro dell’attenzione, si potrebbero perdere altri 25.000 posti di lavoro di cui 2.000 circa tra i dipendenti delle imprese e quasi 23.000 nelle società che operano nei cantieri, che vanno a sommarsi ai 600.000 occupati e 120.000 aziende che il nostro paese ha visto uscire dal mercato dall’inizio della crisi.

Se è vero che nel sistema camerale nazionale, il numero di realtà aziendali con il codice Ateco delle costruzioni raggiunge un livello elevato, la realtà, dal punto di vista strutturale fotografa una situazione di aziende di dimensioni che possono essere definite micro: circa 1,5 addetti per azienda, ovvero nell’alveo dell’impresa artigiana.

Da anni e da più parti, soprattutto dal mondo associativo che rappresenta il settore, si invoca la necessità di una politica industriale che guardi al settore delle costruzioni nel suo complesso. Un settore, che un po’ erroneamente e un po’ per “colpa” di alcuni spregiudicati soggetti, gode di una pessima reputazione ma che senza timore di essere contraddetti ha rappresentato in passato un’eccellenza e una delle forze propulsive dell’economia nazionale. Un settore che comunque ha saputo anche perpetuare la propria expertise dando vita ad interessanti esempi sia dal punto del prodotto finito che dall’innovatività nel processo produttivo e aziendale di cui abbiamo raccontato nel corso dello scorso anno.