Virginia Lunare

Real Estate, Blog, Centro Studi.

“Mercato immobiliare italiano 2025”: già nell’enunciazione c’è qualcosa di paradossale, come il sorriso inatteso di una città che si risveglia dopo una lunga notte. Il paesaggio urbano di Milano, più dei report o dei grafici, conserva il segreto profondo del nostro tempo: l’Italia non corre, non galoppa, ma trotta con ostinazione, mentre l’Europa si ferma a riprendere fiato.

Il convegno annuale di presentazione del Rapporto delle prime 70 Imprese dell’edilizia privata – realizzato da Guamari – del 27 novembre scorso, un appuntamento che è diventato quasi un rito laico per chi vive di città e trasformazioni – ha confermato questa sensazione: il nostro Paese, contro molte previsioni, appare oggi più stabile, più credibile, persino più desiderabile agli occhi degli investitori globali. Francia, Germania, Regno Unito si dibattono tra contrazioni e incertezze, mentre l’Italia continua a “tenere il passo”, come avrebbe detto Fenoglio, con quella sua capacità tutta mediterranea di resistere nei cicli bassi e sorprendere nei cicli intermedi.

Si parla di 11 miliardi di investimenti nel 2025, con Milano ancora magnete principale – oltre due miliardi attratti nei primi trimestri e una logistica che convince più della blasonata sorella francese o dell’ingombrante cugina tedesca.

Sono numeri che raccontano una geografia economica diversa da quella degli ultimi decenni, come se il Mediterraneo stesse diventando di nuovo la piattaforma logistica naturale d’Europa.

Eppure non è solo una questione di capitali. È la forma delle città che sta cambiando, il loro modo di abitare il tempo. Gli uffici sopravvivono solo se centrali, connessi, luminosi: altrove sono fantasmi di un’era che non sa più come giustificare sé stessa. Il residenziale, al contrario, torna protagonista come un personaggio di Pavese, “solo e necessario”: la domanda c’è, la middle class arretra, i costi di costruzione soffocano i margini e rendono fragile il castello del libero mercato. Intanto l’hospitality si insinua come una corrente sotterranea nelle città d’arte: Roma, Venezia, Firenze chiedono un maquillage non più rimandabile, e gli edifici si riciclano come attori esperti che imparano nuovi ruoli.

C’è poi ciò che potremmo definire la rivoluzione gentile dei cantieri: general contractor che diventano sviluppatori, sviluppatori che diventano costruttori diretti, imprese che disintermediano la filiera in nome di un’efficienza più trasparente, attraverso un modello “open book” che riduce varianti, accelera decisioni, riavvicina chi progetta a chi costruisce.

È come se il mondo del real estate avesse improvvisamente compreso che la filiera, per funzionare davvero, non può essere un mosaico di compartimenti stagni, ma un organismo vivo.

Le imprese italiane presenti sembrano interpretare ciascuna un’epoca diversa della nostra storia urbana, puntando su specializzazione o diversificazione in uno scenario dove  tradizione e innovazione si intrecciano come in certi palazzi milanesi che nascondono cortili modernisti dietro facciate ottocentesche, oppure interpretano la città come un racconto da riscrivere continuamente.

Tutto questo accade mentre il settore affronta tre sfide che hanno la durezza di un trittico medievale: la scarsità di manodopera la morsa dei costi di costruzione che divora i business plan, e la sostenibilità, diventata ormai più di una condizione: quasi un imperativo morale. Gli edifici non devono solo consumare meno, ma significare di più: essere tassonomici, elettrificati, intelligenti, adattabili ai nuovi modi di lavorare e vivere.

E poi c’è il grande assente: una legge nazionale sulla rigenerazione urbana, che renda coerente un Paese frammentato in venti normative regionali disallineate. È forse questo il passo che manca per trasformare la resilienza in visione.

Alla fine della giornata, riascoltando le voci dei relatori, mi è tornata in mente una frase di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.” Forse oggi, per noi, vale il contrario: un Paese ci vuole, non fosse che per il gusto – e la responsabilità – di rigenerarlo.

L’Italia non corre. Non galoppa. Ma trotta. E proprio in quel trotto testardo, né brillante né spettacolare, si nasconde una possibilità che non dovremmo ignorare: che il nostro futuro urbano non è scritto, ma si sta scrivendo. Proprio ora, proprio qui.