Nel cuore della trasformazione digitale che sta ridisegnando l’Europa, l’Italia sta giocando una partita sempre più rilevante. I data center, da strutture tecniche invisibili a occhi profani, si stanno trasformando in veri e propri snodi strategici, fondamentali per sostenere l’espansione dell’intelligenza artificiale, dei servizi cloud e dell’intera filiera economica connessa. Nel corso degli ultimi tre anni la capacità installata dei data center italiani è cresciuta esponenzialmente, passando da 100 a oltre 600 megawatt, con una previsione di 1 gigawatt entro il 2026. Il tutto non è casuale: la nostra posizione geografica, al centro del Mediterraneo, ci rende un punto di attracco ideale per i cavi sottomarini e lo scambio globale dei dati. In questo contesto c’è una sfida ineludibile: la corsa per recuperare il ga p infrastrutturale endemico del nostro paese.
L’ingresso sul nostro mercato dei grandi player internazionali – come Amazon Web Services, che ha investito 3,2 miliardi di euro solo in Italia – ha dato una spinta decisiva a questo slancio. «Il data center è la spina dorsale di tutto quello che facciamo», è stato detto a proposito del ruolo del cloud nella strategia di AWS. La promessa è ambiziosa: portare tecnologie complesse come l’intelligenza artificiale, il machine learning o i sistemi predittivi alla portata anche delle PMI italiane, spesso tagliate fuori dall’innovazione. Ma con il cloud, con la sua scalabilità elastica e la logica on demand, il paradigma cambia: si accede a risorse avanzate senza doverle costruire da zero, pagando solo ciò che si consuma.
Questa accessibilità sta ridefinendo il concetto stesso di innovazione. Non solo le grandi imprese ma anche realtà pubbliche, come ad esempio, il fascicolo sanitario elettronico dipendono ormai da infrastrutture cloud. In Lombardia, per esempio, si comincia a parlare della “nuvola” come di una piattaforma critica tanto quanto le reti stradali o ferroviarie. È un’infrastruttura invisibile, ma che sostiene il funzionamento quotidiano di città, servizi, relazioni.
Tuttavia, l’equazione digitale non si può chiudere senza considerare la sostenibilità. In particolare, il consumo energetico resta il nodo più critico: per superare questo problema le soluzioni tecnologiche stanno evolvendo. Si va dal raffreddamento a immersione, all’utilizzo di azoto liquido, fino all’intelligenza artificiale applicata alla gestione dei carichi. Alcuni operatori, come Hewlett Packard Enterprise, stanno sviluppando data center trasportabili e sostenibili, capaci di recuperare calore per riscaldare serre o impianti sportivi, e di abbattere i consumi del 70–80%. A Barcellona, ad esempio, questa tecnologia è già in uso in stadi e palazzetti.
In parallelo, l’adozione di energie rinnovabili diventa centrale. In Italia sono già stati lanciati 27 progetti green da operatori internazionali, con l’obiettivo di raggiungere emissioni Net Zero entro il 2030. Ma la strada è ancora lunga. In particolare, per quanto attiene il problema dell’approvvigionamento elettrico nel nostro paese la rete elettrica è pensata per una generazione centralizzata, e fatica a integrare fonti distribuite. Per ovviare a questo problema servono abbinamenti intelligenti tra solare, eolico e sistemi di stoccaggio. Ma per fare ciò l’innovazione normativa diventa imprescindibile.
Il vero ostacolo resta infatti il quadro regolatorio, ancora frammentato e incerto. L’80% dei data center italiani si concentra nell’area metropolitana di Milano, ma nuovi regolamenti urbanistici stanno creando confusione e fenomeni di arbitraggio territoriale. «Cambiare la classificazione urbanistica di un data center da stabilimento produttivo a terziario è una forzatura», sottolineano diversi operatori. Eppure, la Lombardia è stata la prima regione a introdurre limiti chiari sul rischio idrogeologico e ambientale, offrendo un primo esempio di approccio coordinato tra pianificazione e innovazione. Servirebbe un quadro nazionale coerente, che faccia tesoro delle best practice europee, come quelle adottate nei Paesi Bassi o in Francia, dove il costo dell’energia è calmierato per chi investe in sostenibilità.
Il tema delle competenze, poi, è altrettanto centrale. A oggi, molti progetti vengono ancora gestiti da team stranieri perché in Italia manca una piattaforma strutturata per la formazione e la crescita di talenti in ambito data center. L’esperienza britannica, con la creazione di una filiera dedicata alle skill digitali, mostra come lo sviluppo tecnologico debba sempre andare di pari passo con quello culturale e formativo.
Intorno a questo panorama si stanno muovendo anche soluzioni più agili: data center modulari, progettati per essere installati accanto a industrie, serre o impianti sportivi, con tempi di attivazione molto ridotti. Il concetto di “edge computing” – elaborare i dati vicino alla fonte – non è più solo un’ipotesi da convegno, ma una risposta concreta alla domanda di basse latenze e maggiore efficienza.
Il futuro, in fondo, non è mai altrove. Si costruisce nei luoghi in cui decidiamo di investirlo. Nei megawatt che installiamo, nei tetti che equipaggiamo, nelle reti che progettiamo e nelle decisioni che assumiamo. E oggi, in questa Italia che ancora fatica a raccontarsi come paese tecnologico, i data center sono forse la forma più concreta – e visibile – di una transizione che ci riguarda tutti. Non solo come utenti, ma come cittadini.