real estate

Una delle notizie al centro della stampa specialistica nel corso di questi ultimi giorni riguarda uno dei principali player sul mercato immobiliare italiano: Abitare In.

Secondo quanto emerge dalle notizie di cronaca, l’operatore immobiliare, in particolare, che ha un piano industriale che prevede un numero considerevole di unità immobiliari destinate a residenze sempre con uno sguardo alla rigenerazione e alla riqualificazione, ha dato mandato esplorativo per una riflessione sul proprio futuro a Mediobanca, storico protagonista della finanza d’impresa sul panorama nazionale.

Il dossier di Abitare In sta attirando l’attenzione di alcuni fondi di private equity italiani e stranieri per un progetto industriale che partito solo quattro anni fa ne sta facendo uno dei player più interessanti nel capoluogo lombardo.

Alcuni anni fa, nella fase più acuta della crisi del settore immobiliare e del real estate, ho avuto occasione di collaborare con la società di consulenza Ambrosetti per la realizzazione di un’analisi del contesto di mercato in cui si trovavano ad operare le imprese e di quali erano i driver che avrebbero consentito loro di affrontare in modo adeguato un mondo totalmente rivoluzionato.

Quello che emergeva dall’analisi, ovvero un approccio più industriale al processo produttivo, una diversa propensione verso il capitale, con più equity e meno debito, aveva sollevato molte voci contrarie nella platea delle imprese che presenziavano alla presentazione.

Per molto tempo il settore, storicamente legato a doppio filo alla finanza di debito ha cercato di trovare forme alternative di finanziamento, scontrandosi con una generale diffidenza degli investitori istituzionali nei confronti delle imprese edili, ritenute tradizionalmente poco “innovative” e il cui andamento è funzione delle singole commesse.

Tuttavia, le notizie che in questo momento popolano le pagine delle testate specialistiche, stanno sfatando due falsi miti: le imprese del settore immobiliare e delle costruzioni sono ancora fuori da logiche finanziarie tipiche delle aziende manifatturiere e gli investitori istituzionali non le ritengono attrattive dal punto di vista dell’investimento.

Il punto di svolta in questo scenario è rappresentato proprio dalla propensione all’innovazione e all’apertura al capitale; apertura che rappresenta non solo una svolta nel rapporto con la finanza ma anche una accresciuta sensibilità al tema della comunicazione e della trasparenza, aspetti che non sempre ingiustamente sono stati visti come poco presenti nelle imprese del settore, per loro natura di dimensioni contenute e famigliari.

Ma se è vero che ogni momento di crisi rappresenta anche un momento fondamentale per un cambio di paradigma, l’uragano del settore che dal 2008 ha “rovesciato” il tavolo e ha portato le imprese che hanno avuto la capacità di reagire, a re-interpretare la propria realtà aziendale e i propri processi produttivi con uno sguardo più moderno e tradizionalmente più “associato” agli hidden champions del settore manifatturiero.

Il momento drammatico che abbiamo attraversato e che ha caratterizzato il comparto industriale per un lunghissimo periodo ha dimostrato come l’assioma “piccolo è bello” non risulti sempre così vincente quando l’aggettivo “piccolo” implica la mancanza di una valida struttura manageriale e di una vision che vada al di là dei dodici mesi.

Quelle che all’inizio di questo secolo venivano definite imprese della old economy possono essere, al termine di questo lungo periodo di crisi, esempi di “new” economy, con un occhio alla tradizione del prodotto e l’altro all’innovazione del processo produttivo.

Affari foto creata da jcomp – it.freepik.com