Virginia Lunare

Real Estate, Blog, Centro Studi.

La città che sale è un’immagine potente: elegante, ambiziosa, carica di simboli. Ma cosa succede quando questa metafora diventa concreta, reale? Lo abbiamo scoperto nel corso della 14ma edizione di Tall Buildings – evento organizzato da Guamari – seguendo il racconto urbanistico di Milano, Torino e Napoli, tre città distanti ma unite dalla stessa domanda: come costruire in verticale senza perdere di vista storia, comunità e qualità urbana. Il risultato è una riflessione che va oltre i singoli edifici, per arrivare a interrogarsi sul senso stesso di “salire”.

A Milano, spesso in anticipo rispetto alle trasformazioni urbane, il dibattito parte da un limite evidente: le norme, in particolare la legge del 1942. «È una legge vecchia», ha sentenziato uno dei relatori, con schiettezza. Un ostacolo antiquato bloccato dietro una burocrazia che sembra osservare il futuro con diffidenza. Eppure, la città non resta a guardare. Il Comune ha istituito un’unità operativa ad hoc per agevolare i Programmi Integrati di Intervento che, finora, hanno facilitato operazioni di rigenerazione che hanno caratterizzato la città. Progetti nei quali la torre, lungi dall’essere un simbolo di potere, diventa organismo vivo e sensibile alla luce, allo spazio pubblico, al ritmo urbano. La frase più evocativa? «La torre è la vera progettista; è la luce che la disegna». Un cambio di paradigma: non è più l’architetto a dominare, ma l’elemento stesso dell’abitare verticale che dialoga con l’intorno.

A Torino, città orientata da sempre più verso l’orizzontalità e legata a un’urbanistica di stampo otto-novecentesco, emergono altre sfide. Qui il grattacielo ex RAI in via Cernaia è un simbolo in attesa: storico, volumetrico, architettonico. Oggi è al centro di un progetto che punta a trasformare l’immobilità in dinamicità: una galleria urbana, permeabile, che dalla strada conduce alla piazza sopraelevata, restituendo l’edificio alla comunità. «Abbiamo immaginato una galleria urbana, permeabile, che restituisca l’edificio alla città», ha spiegato uno dei progettisti intervenuti. Niente grattacieli vetrina, ma torri che diventano luoghi di connessione, punti di snodo tra passato e presente, tra cortili storici e spazi rigenerati. È un restituito alla città di una qualità urbana forse persa dall’avvento delle autostrade del cemento.

E poi c’è Napoli, un caso di profondità culturale e complessità stratigrafica urbana. Qui, la verticalità è quasi una frontiera: il Centro Direzionale, progettato negli anni Ottanta con grandi speranze, è oggi un gigante addormentato. Si muovono proposte per ripensare quell’area con uno sguardo nuovo. Spazi da riconnettere, identità da recuperare, storia da non tradire. «Questo progetto non è solo rigenerazione urbana. È riconnessione emotiva», ha detto uno dei progettisti. Perché in una città come Napoli, costruire in verticale significa prima di tutto misurarsi con la stratificazione storica, con un’identità profonda, fatta di condivisione e memoria collettiva. La torre non può essere soltanto oggetto; deve farsi tessuto narrativo, racconto che unisce generazioni e sguardi.

Cosa lega queste tre città? Un orizzonte comune, ma declinato in modi diversi. Milano, frenetica e proiettata nel futuro; Torino, riflessiva e modulata; Napoli, stratificata e poetica. Eppure, su tutte, emerge l’urgenza di strumenti amministrativi più flessibili e visioni strategiche sul medio-lungo periodo. Lo ha sottolineato Jacopo Palermo – Associate Partner di TEHA: «Non possiamo ragionare su orizzonti di cinque anni. Dobbiamo pensare con una prospettiva industriale di venticinque». Perché se costruire in verticale è una soluzione per le esigenze del presente, immaginare e attuare un piano urbano sostenibile richiede capacità di vedere in lontananza, capacità di ascoltare i desideri delle comunità che quei grattacieli li vivono o li subiranno.

Da Milano a Napoli, i progetti non si limitano a costruire spazi. Costruiscono relazioni: spazi pubblici condivisi, percorsi pedonali, connessioni visive, esperienze percettive. Progetti che cambiano il modo in cui ci muoviamo, abitiamo, incontriamo. Progetti “umani”, in cui la torre diventa infrastruttura relazionale. Lo fa Milano attraverso la luce e la qualità, lo fa Torino attraverso la permeabilità e la restituzione alla città, lo fa Napoli attraverso la riconnessione emotiva con la storia.

Questo racconto a tre voci ha avuto un fil rouge: la responsabilità dell’architettura. Non come ornamento, ma come atto collettivo. Non come scena, ma come palcoscenico per la vita urbana. Perché la città che sale possa diventare un luogo dove sei felice di vivere, non solo uno skyline da ammirare. Il compito, allora, non è solo costruire in alto, ma costruire in maniera alta: alta qualità, alta inclusività, alta attenzione al bene comune. Senza dimenticare che dietro ogni torre, grande o piccola, c’è una comunità che guarda, che abita, che sceglie.